Palazzo Mezzacapo: la storia.

di Lina Sabino. Funzionario della Diocesi di Amalfi-Cava de’ Tirreni – Storico dell’arte direttore coordinatore della Soprintendenza B.S.A.E. di Salerno e Avellino.

Il comprensorio sul quale oggi insiste il palazzo con i giardini era in origine di proprietà della chiesa di S. Maria a Mare e venne nel tempo affidato a diversi ecclesiastici, che ne traevano le rendite in loro beneficio.

Ai principi del Cinquecento, unite alla Rettoria di Santa Maria a Mare e alla prebenda del Primiceriato (allora dignità maggiore del clero maiorese), buona parte delle chiese parrocchiali era commendata a Raffaele Riario: la parrocchiale di San Giacomo de Platea, San Giovanni de Campulo, Sant’Angelo de Castaldo, San Giovanni a Mare, San Nicola a Vivata, sant’Agnese e San Nicola di Carpineto, goduti dal Cardinale, con altri benefici semplici fondati nelle diocesi Amalfitana e Ravellese. Direttamente sollecitata dal Riario, ma in realtà auspicata e sostenuta, con dovizia di mezzi, dal ceto dirigente, che aspirava ad ottenere il titolo di distinzione civica, e dal clero locale, insofferente della giurisdizione arcivescovile amalfitana, l’elevazione della Rettoria a Insigne Collegiata, direttamente sottoposta alla Santa Sede e governata da un Prevosto, fu decretata dal Papa il dieci marzo 1505.

Primo prevosto fu Guido (o Guidone) Bonaventura (1505-1508), di nobile famiglia Urbinate caudatario del Cardinal Riario. Il 20 agosto 1507 il notaio Bartolomeo Cinnamo di Maiori stipulò l’atto con cui il Bonaventura, «preposito maioris ecclesie maiorane» e i venerabili preti e canonici della chiesa collegiata di S. Maria de Mari, immettevano il signor Vinciguerra Lanario nel possesso reale di un complesso di beni, pertinenti al beneficio semplice della Maggior Chiesa Amalfitana detto de Sala seu de Cammara, commendato al cardinale Raffaele Riario, composti da vigna, orto, canneto,‘bottaro’ e palmento, siti nella Terra di Maiori «sotta lo Campo et alo Santo», del valore di ducati 690 e l’annuo reddito di ducati 23, permutati con un complesso di beni dello stesso valore e gravati dello stesso annuo reddito, siti nella Terra di Maiori in Vecite, Trapulico e nella Terra di Tramonti nel luogo detto lo ponte de messer Leo, come dall’atto inserito, rogato dal notaio Gabriele de Cunto in data 1506, nov. 4, X, Napoli. (Archivio della Chiesa Collegiata Santa Maria a Mare di Maiori, Archivio Capitolare, Negozi, busta 91, fascicolo 37).

Il palazzo fu dagli eredi di Giacomo Lanario, morto nel 1551, poi ceduto alla famiglia Mezzacapo (de Mediocapite), originaria di Minori ma trasferitasi a Maiori nella prima metà del Quattrocento, che provvide a ristrutturarlo in più riprese. Nel 1583 il nuovo proprietario del palazzo Giovanni Antonio Mezzacapo e il nobiluomo Giovan Francesco Citarella appaltavano al cavese Giovannantonio Salsano la costruzione di un ponte sul fiume Reginna che doveva unire le piazze antistanti i due palazzi dirimpettai. (Società Napoletana di Storia Patria, Manoscritti Staibano, c. 570).

La famiglia, già ricca per i vasti commerci di legna e carbone che aveva saputo mettere in piedi sostenendoli con una intensa attività creditizia, afferma il proprio prestigio aristocratico nel XVII secolo, grazie ai ripetuti matrimoni con gentildonne appartenenti alle famiglie d’Afflitto, d’Andrea, Bonito: aggregata alla Nobiltà di Scala nel 1657, a quella di Amalfi nel 1582, ricevuta per giustizia nell’Ordine di Malta dal 1708 con frà Filippo Mezzacapo, primo della famiglia a vestire l’abito di cavaliere di Malta, riconosciuta nel 1847 nella sua antica nobiltà per le prove di ammissione nelle Regie Guardie del Corpo, decorata dal 1788 del titolo di Marchesi di Monterosso, per rinnovazione della prima concessione del 1704, in favore della nobile famiglia Banner y Beck. Per accrescere ulterioremente il proprio prestigio prende sotto particolare protezione i monaci camaldolesi dell’eremo dell’Avvocata e riserva loro un piccolo appartamento del palazzo che fu detto “quarto dei frati”.

A Gaetano Mezzacapo, sposo della marchesa Marianna Pepoli di Castiglione, si deve la sistemazione e decorazione attuale del palazzo nelle forme settecentesche destinate a coprire le severe forme cinquecentesche che ancora a metà del secolo distinguevano la costruzione.

Del palazzo furono ospiti la Regina Madre Maria Isabella di Borbone, vedova di Francesco I, Re delle Due Sicilie, il 26 ottobre 1833; il ministro Nicola Santangelo nel 1837, per controllare lo stato dei lavori per l’apertura della strada costiera insieme all’Intendente della Provincia di Principato Citra e a Guido Mezzacapo, Deputato delle Strade (Società Napoletana di Storia Patria, Manoscritti Staibano, cc. 576. 581); il tenore Enrico Caruso.

È voce comune che il giardino abbia la forma della croce di Malta, in onore dell’Ordine militare ed ospitaliero al quale appartennero diversi componenti della famiglia. Interessante è notare il sistema di recupero e di utilizzo delle acque derivate dal Reginna, utilizzate per animare la forza motrice del mulino costruito sul lato orientale del giardino e per conservare risorse idriche utili per l’irrigazione del grande limoneto, oggi non più esistente, impiantato alle spalle del palazzo. Gli eleganti padiglioni assolvevano ad una funzione decorativa, chiudendo lo sfondo e al contempo erano anche usati come deposito di attrezzi e semenzaio. Nel padiglione d’angolo è ancora visibile una finta grotta che un tempo conservava una colonna con interessante capitello romanico, successivamente trafugata. Lungo il muro di cinta si possono ancora osservare i resti dell’ «acquaro» cinquecentesco che serviva da condotta delle acque irrigue.